Luca Giachi e Come una canzone: L’intervista

Per chi non lo sapesse, Goodbook.it è il portale delle librerie indipendenti. A partire da quest’anno, il blog del portale, La scimmia dell’inchiostro, ha inaugurato la rubrica “L’editore del mese”, dove, ogni mese, si propone di presentare un editore del panorama indipendente italiano attraverso l’aiuto di alcuni book-blogger. Noi abbiamo avuto il piacere di intervistare Luca Giachi, giovane scrittore romano edito da Hacca, al quale abbiamo posto qualche domanda sul suo secondo romanzo Come una canzone

Per chi non lo sapesse, Goodbook.it è il portale delle librerie indipendenti. A partire da quest’anno, il blog del portale, La scimmia dell’inchiostro, ha inaugurato la rubrica “L’editore del mese”, dove, ogni mese, si propone di presentare un editore del panorama indipendente italiano attraverso l’aiuto di alcuni book-blogger.

Questo mese, la casa editrice indipendente in evidenza è la marchigiana Hacca Edizioni. Fondata nel 2006, vanta già settantatré titoli di narrativa, tutti scelti con l’intento di dare voce alla letteratura contemporanea, riproponendo anche autori del Novecento italiano caduti nel dimenticatoio.

Se volete saperne di più su questa casa editrice, vi consiglio di leggere l’intervista de Qui Si legge a una dei fondatori, Francesca Chiappa: potete leggerla qui.

Noi, invece, abbiamo avuto il piacere di intervistare Luca Giachi, giovane scrittore romano edito da Hacca, al quale abbiamo posto qualche domanda sul suo secondo romanzo Come una canzone (di cui vi ho parlato ieri, qui).

B&F – All’inizio del romanzo, Mattia esprime la sua frustrazione per il non riuscire a farsi strada nel mondo musicale: fare musica fuori dal coro è come tentare di inerpicarsi lungo un percorso perennemente orizzontale, vuol dire scontrarsi con l‘impossibilità di andare oltre una determinata soglia. In questo, quanto si somigliano il mondo musicale e quello dell’editoria? Quanto è difficile ritagliarsi un proprio spazio in un’editoria sempre più improntata al profitto? Quali sono i vantaggi del poter lavorare con una casa editrice indipendente, sia a livello umano che a livello prettamente lavorativo?

LG – Veramente ho la sensazione che il problema dell’editoria sia quello della mancanza di un reale profitto. Da questo punto di vista i due mondi, quello musicale e quello dell’editoria, si assomigliano. Diciamo che i musicisti, quelli che provano a campare solo di musica, sopravvivono con i concerti (e con una casa di proprietà); sottolineerei il termine sopravvivere. Non ho mai lavorato con una grande casa editrice per cui non saprei fare un paragone. Per quanto riguarda lavorare con una casa editrice indipendente certamente permette un dialogo più stretto e più “costruibile” nel tempo.

B&F – Al romanzo fa sfondo una Roma frizzante, eterea, immortalata nel suo ruolo di città eterna e di ombelico d’Italia, ultimo approdo di una gioventù che fatica a trovarsi e a realizzarsi, e dopo il quale non resta che espatriare. Perché la scelta è o Roma o estero? E perché attrae così tanti giovani del Sud?

LG – I “giovani” del sud vengono a Roma, occupando Roma est, principalmente per studiare. Chiunque abiti a Roma è pressoché certo che avrà un amico calabrese e ancor più certamente avrà partecipato a una cena a casa di fuorisede calabresi, con conseguenti aumenti di peso e ancor più conseguenti (e regolari) tornate al bagno per “smaltire” l’ottima, quanto pesante, cucina calabrese.
Il discorso di andare all’estero è complesso. Una cosa che ho scoperto negli anni è che si va all’estero non solo perché non si trova lavoro o perché si ha l’opportunità lavorativa o formativa di andare a nord di Bressanone. Spesso si va all’estero per fuggire da problemi che non sai risolvere o non vuoi risolvere nel paese dove vivi e che hanno a che fare con i tuoi affetti, principalmente familiari. Ho espresso, o quantomeno ho provato a esprimere, tale elemento attraverso la figura di Letizia, la protagonista del romanzo, che dietro la voglia di uscire dall’Italia nasconde altri problemi, problemi spesso poco chiari a lei stessa e che cela con un superficiale disfattismo verso Roma.

B&F – Mattia e Letizia sono due giovani che devono fare i conti col diventare adulti: rinunciare ai propri sogni per scendere a compromessi e, usando le parole dello stesso Mattia, “vivere una vita che era altro da quella che mi aspettavo di vivere”. Nel corso del romanzo Mattia dichiara “sento come un peso, come se mi dovessi uniformare ad un certo modo di pensare”, e ancora “ci eravamo vergognati, o ci avevano fatto vergognare di avere questi scopi nella vita”. Mi ha colpito molto l’uso del termine “vergognarsi”. Perché col susseguirsi delle generazioni, l’esigenza sociale dello standardizzarsi alla regola non cambia? Perché un genitore che ha messo da parte le sue aspirazioni impone la stessa rinuncia al figlio?

LG – Premesso che nel romanzo non viene trattato il rapporto con i genitori né di Mattia né di Letizia, bisognerebbe interpellare psicologi o sociologi. Quello che mi interessava era mettere a confronto due persone con più o meno dieci anni di differenza: così che Mattia potesse rivedere in Letizia aspirazioni che solo in parte era riuscito a realizzare e allo stesso tempo la vitalità di Mattia, nonostante non avesse realizzato completamente i suoi desideri, quasi inquietasse Letizia. In un dialogo tra Mattia e la psicologa Strabussonotti, lei afferma che nessuno si può mai realmente definire realizzato in modo completo. Sul vergognarsi, al mio esame di maturità la commissione esterna chiese che cosa volevo fare dopo il liceo: alla stessa domanda tutti gli altri miei compagni, più o meno, risposero di proseguire gli studi. Io risposi: “La rockstar”. Si misero a ridere. Credo che fosse una battuta la mia, e la commissione rise. Risi anch’io. Negli anni mi sono reso che conto per me non era una battuta. Il problema è che ormai la soglia per cui le persone si mettono a ridere se vuoi raggiungere determinati scopi e traguardi si sta inquietantemente alzando: ormai anche se volessi proseguire gli studi con un dottorato, la tua scelta farebbe ridere molte “commissioni” di questo mondo.

B&F – Nel romanzo il Conservatorio è usato come metafora della vita: fornisce un’ottima preparazione scolastica a tutti gli studenti, ma risulta carente nella cosa più importante di tutte, ossia insegnare a “cercare un vostro modo di fare musica”. Come si fa ad esprimere sé stessi, a cercare un proprio modo di fare musica, quando invece la richiesta è di annullarti ed uniformarti alla società?

LG – Suonando da anni, sono rimasto sempre molto colpito dall’incontro con persone che studiavano o si erano diplomate al conservatorio. Molti di questi musicisti dalla tecnica perfetta nel momento in cui gli viene chiuso uno spartito sono incapaci di suonare una singola nota che provenga da loro. Ognuno può cercare un suo modo di suonare, come di scrivere, come di fare un piatto di pasta, come di vivere, solo se decide di partire da sé stesso e non da quello che è intorno a sé. La tecnica in qualsiasi campo non può essere un traguardo, quanto un semplice strumento. Vero è che spesso nel campo della musica alternativa a forza di menarla sulla “non” necessità di una qualsiasi forma di tecnica sono passate delle cose al limite del punitivo, basti pensare a quasi tutta la scena indierock romana, una sorta di dittatura del “lo famo strano, lo famo stonato, lo famo da incapaci, lo famo per non unificarci alla società” che ha praticamente massacrato il senso stesso di avere un’idea su cosa suonare e su cui suonare. Sia chiaro che il discorso è assolutamente pertinente anche per la scrittura. Oppure, per l’appunto, su come fare un piatto di pasta: basti pensare a tutti questi ristoranti radical chic che infestano il Pigneto o Monti (quartieri di Roma, ndr) dove nei menù vengono presentati nomi di piatti lunghi quanto Guerra e Pace, che costano mezzo stipendio e dopo che hai mangiato tanto “popò di roba”, l’unico commento che ti viene da fare, come si dice a Roma, è: “‘na buffonata…”.

B&F – Se Mattia “non riesce a fare le cose se non [se] le sente dentro”, perché “[…] ripetere all’infinito tutto ciò che già si conosce, era un delitto. Un delitto verso sé stessi.”, Letizia, invece, è stata una studentessa modello del Conservatorio della vita. Eppure questo non l’ha resa felice e il suo disagio arriva ad esprimersi nell’anoressia. Prendere coscienza della propria vulnerabilità può essere il punto di partenza per diventare adulti?

LG – Il personaggio di Letizia è “incastrato” nei suoi 28 anni. È situazione comune a molti che, appena laureati, devono prendere in mano la propria vita e decidere cosa fare. Per alcuni aspetti è il momento in cui ci si confronta di più con le proprie aspirazioni. Letizia si muove tra modelli sui cui si è formata e che riconosce solo in parte, e la fatica di cercare una sua strada lungo cui proseguire. Una strada che non riesce a trovare ma che maniacalmente insiste a cercare. E fin qui siamo nel classico campo del “avere 28 anni ed essersi laureati da poco”. Il suo percorso è però ancora più complesso perché nello sviluppo del romanzo e nella (non) relazione con Mattia affiorano i suoi problemi personali e l’assoluta incapacità di volersi confrontare con essi. Direi che il problema principale di Letizia sia proprio quello di non accettare la propria vulnerabilità, e quindi sì direi che sia il punto di partenza, non tanto per diventare adulti ma per stare meglio e produrre meno disagio. In un passaggio Mattia dice: “la terza cosa certa è che devo finire di pensare di migliorare. Sono come sono e pace”.

B&F – Il romanzo, oltre al disagio e alle insicurezze dei giovani d’oggi nell’approcciarsi alla vita adulta, affronta anche come si relazionano tra di loro. Sono giovani che non riescono più a dirsi le cose in faccia, ripiegando sulle emotivamente meno impegnative email, e che stanno insieme ad una persona per abitudine, per non dover ricominciare. Perché relazionarsi con gli altri è diventato così difficile? È un’altra espressione dell’insicurezza dei giovani d’oggi?

LG – Anche qui bisognerebbe fare questa domande a psicologi o sociologi. Sinceramente io credo che le difficoltà nel relazionarsi ci siano sempre state. Oggi come ieri. Credo che quarant’anni fa le cose “se le dicevano in faccia”, diciamo così, solo perché non c’erano i social network, altrimenti… Detto questo, mi sento molto analogico e molto poco digitale, ciò comporta che tutti questi social network mi sembrino più una fiera dalla vanità e dell’autostima che altro. Per dire, ho avuto seri problemi esistenziali nell’aprire la mia pagina Facebook! Trovo che questa tendenza a voler raccontare i fatti propri al resto del mondo sia abbastanza inquietante, non tanto che qualcuno abbia piacere a raccontare la propria vita attraverso la rete (e comunque è inquietante!), quanto che ci sia qualcuno interessato a sapere tutto della vita di un altro essere umano. I social network mi pare che ci abbiano reso tutti delle “rockstar” nel nostro piccolo. E soprattutto ci abbiano reso incapaci di pensare a “noi” come esseri umani che possono e che hanno anche bisogno di stare da soli. Sospetto che tutto ciò non faccia che aumentare la possibilità sia di attrarre, ma soprattutto di produrre disagio.


Vorrei ringraziare Giulia di Goodbook.it per avermi dato la possibilità di fare questa bella esperienza e per la pazienza che ha avuto con me, nonché Hacca Edizioni e Luca Giachi per il tempo che mi hanno dedicato. Grazie a tutti!

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