‘Io non mi chiamo Miriam’ di Majgull Axelsson

Contrariamente a quanto si crede, olocausto non è solo ebrei. Nei campi di concentramento e di sterminio furono deportati, ad esempio, anche omosessuali, testimoni di Geova, prigionieri politici, anti-nazisti e zingari. La storia di Miriam parte da qui.

Io non mi chiamo Miriam Axelsson Recensione
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson
Iperborea
settembre 2016, pp. 576
ISBN: 9788870914672
Titolo originale: Jag Heter Inte Miriam
Sentiva che la terra le si poteva spalancare sotto i piedi da un momento all’altro, che rischiava di inciampare e cadere p essere ingoiata da un buco nero e muto. Che nessuno, non un solo essere umano al mondo, avrebbe voluto aiutarla, salvarla, darle il minimo soccorso. Perché questo era quello che era: una rom. Una zingara.

Miriam Goldberg vive a Nässjö, Svezia, da sessant’anni. È la vedova di uno stimato dentista. Vive in una bella casa, con la famiglia del figlio acquisito, e conduce un’esistenza tranquilla. Guardandola, nessuno immaginerebbe che sessantotto anni prima si trovava in una cella del blocco punitivo del campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Ma quanti la credono un’ebrea sopravvissuta all’olocausto, sbagliano.

Nessuno sa che Miriam, in realtà, si chiama Malika. Ha vissuto la brutalità dell’olocausto sulla propria pelle, sì, ma non è ebrea: è una rom. È stato l’istinto di sopravvivenza, quel giorno lontano, a farle indossare gli abiti di una compagna morta, assumendone, così, l’identità. Ma ha tenuto tutto nascosto, anche a guerra conclusa. Si è guardata bene dal rivelare chi è. Anzi, si è impegnata una vita intera a nascondere le sue origini. Un affanno dettato dalla paura: la paura d’essere respinta e di ritrovarsi in mezzo alla strada, a lottare di nuovo per la sopravvivenza, tenuta a distanza perché zingara.

Questo romanzo, che vuole presentarsi come un memoir sull’olocausto, narra la storia di chi ha vissuto in prima persona lo stupore, la vergogna e la disperazione d’essere strappato alla propria casa, ai propri affetti. Racconta la vita delle donne nei campi di concentramento, la lotta per la sopravvivenza, l’esistenza di pregiudizi fra etnie persino tra le stesse deportate. E poi la liberazione, il lento, logorante tentativo di ricrearsi una quotidianità, una normalità di facciata, nascondendo un dolore che mai diminuisce e dovendo e volendo tacere ciò che si è patito, perché la società ha vergogna della bassezza di cui è stata capace.

Contrariamente a quanto si crede, olocausto non è solo ebrei.

Nei campi di concentramento e di sterminio furono deportati, ad esempio, anche omosessuali, testimoni di Geova, prigionieri politici, anti-nazisti e zingari. Ognuno aveva il suo colore. Così come gli ebrei erano contrassegnati da una stella gialla, gli zingari si riconoscevano dal triangolo marrone cucito sui vestiti.

Inizialmente, i figli dei rom, soprattutto se mezzosangue, furono portati dalle suore, affinché gli venisse impartita un’educazione migliore di quella datagli dai genitori. Successivamente, finirono anch’essi nei lager. I più piccoli fecero da cavie per gli esperimenti Josef Mengele. Morirono quasi tutti.

Inoltre, i rom furono tra i pochi a tentare una qualche resistenza durante la detenzione nei campi di concentramento. Il 16 maggio del 1944, infatti, il settore degli zingari di Auschwitz tentò di ribellarsi alle SS. Gli costò caro: meno di tre mesi più tardi (2 e 3 agosto 1944), in quella che viene ricordata come la notte degli zingari, circa tremila rom vennero uccisi con il gas e bruciati.

Se da un lato il romanzo sottolinea la sofferenza ed i patimenti dei prigionieri e l’impossibilità di dimenticare, dall’altro pone l’accento sugli eterni pregiudizi sugli zingari (che conosciamo tutti) che, nel caso di Miriam, sono vissuti con una tale paura, da portarla a nascondere le proprie origini, per timore di essere rinnegata ed abbandonata dalle persone a cui tiene.

Per molti versi un romanzo intenso, che invita alla riflessione. Peccato che, a tratti, sia troppo dispersivo.

Potete leggerne l’incipit qui.

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