Scopriamo il libro #2 | Cambiare l’acqua ai fiori

Il libro che voglio farvi conoscere oggi è Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin. Il romanzo, che è uscito nel 2018 ed ha vinto il Prix Maison de la Presse in Francia, è ambientato in un luogo insolito.
Se non fosse stato scelto dal Gruppo di Lettura della Biblioteca, non credo che l’avrei mai preso in considerazione.
A tratti l’autrice si dilunga un po’ troppo su particolari di cui si farebbe benissimo a meno e che sulla lunga distanza stancano un po’, ma è un romanzo scritto bene e piacevole.

Cambiare l'acqua ai fiori
Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin | Edizioni e/o | 2019 | pp. 480 | ISBN 9788833571478 | € 11,99 | Titolo originale: Changer l’eau des fleurs

1
Un solo essere ci manca,
e tutto è spopolato

I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità.
Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non si rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire.
Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, gelosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d’azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti.
I miei vicini sono morti.
L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano.

2
Cosa sarà di me se non sento più i tuoi passi?
È la tua vita o la mia che se ne va? Non lo so

Mi chiamo Violette Toussaint. Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero.
Assaporo la vita, la bevo a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele. E la sera, quando il cancello del cimitero è chiuso e la chiave appesa alla porta del bagno, sono in paradiso.
Non il paradiso dei miei vicini, no.
Il paradiso dei vivi: un sorso del porto annata 1983 che José-Luis Fernandez mi regala ogni primo settembre, un rimasuglio di vacanze in un bicchierino di cristallo, una specie di estate indiana che stappo verso le sette di sera sia che piova, nevichi o tiri vento.
Due gocce di liquido color rubino, il sangue delle vigne di Porto. Chiudo gli occhi e lo gusto. Basta un sorso per allietarmi la serata. Due gocce, perché mi piace l’ubriachezza ma non l’alcol.
José-Luis Fernandez viene a curare i fiori sulla tomba di Maria Pinto coniugata Fernandez (1956-2007) una volta alla settimana tranne che nel mese di luglio, durante il quale lo sostituisco io. Donde la bottiglia di porto
per ringraziarmi.
Il mio presente è un dono del cielo. Me lo dico ogni mattina appena apro gli occhi.
Sono stata molto infelice, addirittura annientata, inesistente, svuotata.
Sono stata come i miei vicini, ma in peggio. Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza me dentro, senza la mia anima, che a quanto pare, a prescindere da che uno sia grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio, pesa ventuno grammi.
Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata. La sfortuna deve pur finire, prima o poi.
Ho cominciato malissimo. Sono nata con un parto in anonimato nelle Ardenne, nel nord del dipartimento, in quell’angolo di territorio che si insinua nel Belgio, là dove il clima è definito “semicontinentale” (forti precipitazioni in autunno e frequenti gelate in inverno), là dove immagino che si sia impiccato il canale cantato da Jacques Brel.
Il giorno in cui sono venuta al mondo non ho pianto, così mi hanno appoggiato in un angolo come un pacco da 2,670 kg senza francobollo e senza destinatario in attesa di riempire i documenti in cui venivo dichiarata partita prima di essere arrivata.
Nata morta. Bambina senza vita e senza cognome.
L’ostetrica doveva trovarmi in fretta un nome da scrivere sul modulo, e ha scelto Violette.
Immagino che fossi viola dalla testa ai piedi.
Quando ho cambiato colore, quando sono passata dal viola al rosa e si è trovata a dover compilare un atto di nascita, ha mantenuto lo stesso nome.
Il fatto è che mi avevano posato su un termosifone, e la mia pelle si era riscaldata. A congelarmi doveva essere stata la pancia di una madre che non mi voleva. Il caldo mi ha riportato alla vita; sarà per questo che adoro l’estate, che non perdo mai occasione di espormi ai primi raggi, come un girasole.
Il mio cognome da nubile è Trenet, come il cantautore. A darmelo dev’essere stata la stessa ostetrica che mi ha chiamato Violette.
Evidentemente le piaceva Charles Trenet, come in seguito è piaciuto a me.
A lungo l’ho considerato un lontano cugino, una specie di zio d’America che non avevo mai conosciuto. Se ti piace un cantante, a forza di cantarne le canzoni acquisisci quasi un legame di parentela.
Toussaint è venuto dopo, quando mi sono sposata con Philippe Toussaint. Con un cognome simile avrei dovuto diffidare1. Ma è anche vero che c’è chi di cognome fa Printemps, primavera, e poi picchia la moglie. Un cognome grazioso non impedisce a nessuno di essere uno stronzo.
Mia madre non mi è mai mancata, tranne quando avevo la febbre.
Quando stavo bene crescevo, venivo su dritta come se l’assenza di genitori mi avesse applicato un tutore lungo la spina dorsale. Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica.
Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte.

1 Toussaint significa Ognissanti, tuttavia in Francia è il giorno in cui tradizionalmente si vanno a onorare i defunti. Nel linguaggio corrente, quindi, Toussaint equivale a “giorno dei morti”. [Tutte le note sono del Traduttore.]

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