‘Perché i pesci non affoghino’ di Amy Tan

Amy Tan, scrittrice america di origini cinesi, parte dalla notizia vera della scomparsa di undici turisti americani in Birmania, per tessere le fila di un romanzo che ha come obiettivo mostrare le differenze incolmabili tra Occidente e Oriente e la relatività del “bene”.

Fuori diluvia, l’autunno sembra essere piombato all’improvviso su di noi ed io sono sopravvissuta a questo libro. Sì, perché c’è stato un momento in cui ho creduto di non farcela.

Perché i pesci non affoghino recensione
Perché i pesci non affoghino di Amy Tan
Feltrinelli
10/11/2006, pp. 433
ISBN: 9788807017063
Prezzo: 17,50 euro
Titolo originale: Saving Fish from Drowning: A Novel

“Un uomo pio spiegò ai suoi discepoli: Togliere la vita è un’azione malvagia, salvare una vita è un’azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. ‘Non abbiate paura-dico loro- Vi ho salvato impedendo che affogaste’. Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male porto i pesci morti al mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci.”

Amy Tan, scrittrice america di origini cinesi, parte dalla notizia vera della scomparsa di undici turisti americani in Birmania, per tessere le fila di un romanzo che ha come obiettivo mostrare le differenze incolmabili tra Occidente e Oriente e la relatività del “bene”.

Ma andiamo per gradi.

La storia viene narrata dal fantasma di un’antiquaria di San Francisco, Bibi Chen, una cinese di sessantatré anni, morta, in circostanze non chiare, nel suo negozio e proprio a pochi giorni della partenza per un viaggio in Cina e Birmania che ha organizzato essa stessa. La tradizione orientale vuole che, dopo la morte, lo spirito della persona continui a vagare sulla terra per quarantanove giorni, prima di reincarnarsi nuovamente. Così, Bibi Chen non può far altro che osservare il mondo di cui non fa più parte, potendo sentire i sentimenti delle persone che la circondano e viaggiare da un posto ad un altro in men che non si dica. Alla sua morte, i compagni di viaggio decidono di partire ugualmente, non sapendo quale oscuro destino li attende. Bibi Chen, ovviamente, li segue, nella buona e nella cattiva sorte, lungo quei passi che ne metteranno a repentaglio la vita.

Se da un lato Amy Tan dà ampio spazio alla cultura, alle tradizioni e alla situazione politica di Cina e, soprattutto, Birmania e a tratti con pedanteria scolastica, dall’altro lato mostra l’enormità del divario culturale e sociale tra Occidente e Oriente. Un po’ come ne La vegetariana di Han Kang, l’individualismo occidentale è contrapposto al collettivismo orientale. Nel caso specifico, ad esempio, le guide turistiche cinesi faticano a tenere a bada questi turisti americani così “esuberanti”; mentre questi ultimi non riescono a capire che cosa ci sia di male nel loro comportamento.

“Non si possono avere intenzioni senza conseguenze.”

Amy Tan si prende gioco dell’ingenuità dei turisti, catturati in una messinscena che è tutta per loro. In questo è spietata. Non è attraverso un tour organizzato che si conosce realmente un paese, con tutte le sue criticità grandi e piccole. Ed è quello che scoprono gli americani, quando vengono rapiti. Eppure, anche in questo frangente viene rimarcata la loro cecità, perché fino all’ultimo sono convinti si tratti di un’attività organizzata appositamente per loro, non sono coscienti di quello che gli sta succedendo.

Cruda la metafora sui pesci pescati perché non affoghino. Noi crediamo di sapere di che cosa abbia bisogno una persona (o un popolo). In realtà, il concetto di bene è relativo. Spesso, crediamo di fare del bene, ma, invece, non facciamo altro che complicare la vita di un altro, arrecandogli infelicità. Nel romanzo, questo è particolarmente evidente nella parte conclusiva, così come nel continuo tentare di appianare le cose con i soldi degli americani.

Un romanzo sicuramente intenso ma che, al di là degli spunti di riflessione, ho trovato eccessivamente prolisso ed estenuante. In più, la voce narrante (fantasma) che mi è parsa estremamente pedante e irritante. Insomma, a meno che voi non siate amanti della cultura e della letteratura asiatica, non mi sento di consigliarvelo. Impiegate meglio il vostro tempo. Alla prossima!

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