Il colibrì di Sandro Veronesi

Il Colibrì di Sandro Veronesi | La Nave di Teseo | 2019 | pp. 368 | ISBN 9788834600474 | € 19,00

Il colibrì di Sandro Veronesi. Allora. La premessa – doverosa – è che questo libro me l’hanno regalato per il mio compleanno. È uno di quei libri che mai mi sarei sognata di prendere di mia iniziativa, che mai avrei anche solo preso in considerazione di leggere.

Ho impiegato sei mesi a finirlo. Sei mesi. E, se mi sono torturata pur di arrivare a quella parola fine, è stato solo per il bene che voglio a chi me l’ha regalato.

Sapete a che pagina è suonata la campana a morto? Intorno a pagina 70. Non voglio neppure tornare a cercare la pagina esatta. Intorno a pagina 70 comunque e non oltre pagina 110. Già avevo cominciato a mettere su la faccia da Grumpy Cat un filino prima, praticamente all’inizio, quando mi sono ritrovata davanti circa tre pagine di un elenco di mobili con tanto di prezzo originale e valutazione successiva. Tre pagine. Però mi sono detta: c’è sicuramente un motivo per una cosa così inutile. Vabbè, magari è solo una trovata dell’autore. Massì, che sarà mai.
(Naturalmente, ho saltato le tre pagine a piè pari.)

Dicevo, la campana a morto è suonata poco più in là, quando lui, il protagonista, Marco Carrera, scrive questa e-mail (e sottolineo: e-mail!) al fratello Giacomo e dopo poche righe ho pensato di essere sotto l’influsso di allucinogeni. Anzi, vi rendo proprio partecipi (gli sta scrivendo di alcuni libri appartenuti al padre):

“[…] Ma, ecco il punto, dopo aver visto questo che ho visto, nella pagina precedente, cioè la prima, come si chiama, quella subito dopo la copertina, dove sono ripetuti l’autore, il titolo e l’editore, come si chiama? Dove gli scrittori fanno le dediche, come si chiama? Frontespizio? Fammi controllare. Ecco fatto: sì, si chiama frontespizio, “la pagina iniziale di un libro”, dice Wikipedia, “ovvero quella che il lettore vede per prima dopo aver aperto la copertina”. È lei. Dicevo, ho visto che quel frontespizio c’era scritto qualcosa a lapis, nella calligrafia del babbo.”

Ora: ma sul serio? Ma serio serio? È una presa per il c*? Perché io mi sono sentita presa per il c*.
Ho perso il conto delle volte sono tornata a leggere, con sempre maggiore smarrimento, quel “Premio Strega” sulla copertina.
Se qualcuno mi scrivesse un e-mail del genere e con una pagina e mezza di copia-incolla da Wikipedia, non gli rivolgerei la parola neppure io. Non mi sorprende che Giacomo sia scappato all’altro capo del mondo e che abbia tagliato tutti i ponti con lui. Un belato del genere me lo risparmierei anche io. Sì, è stato come leggere un lungo belato pari solo a quello di Bianchina di Heidi.

Il colibrì veronesi

(Comunque, era a pagina 77)

Avete presente quando vi trovate in una situazione talmente ridicola che vi guardate intorno cercando la telecamera, o almeno quel tizio che nelle Candid va incontro ai poveri malcapitati ridendo e indicandoli con un dito? Ecco, speravo di trovarmi in una Candid Camera e sto ancora aspettando quel disgraziato che mi viene incontro ridendo per rassicurarmi che è stato tutto uno scherzo.

Nessun dubbio sulla capacità di scrivere di Veronesi. Ha una scrittura fluida, che si legge in scioltezza. Ma, ultimamente, è diventata una cosa molto comune, a pensarci bene. E, in fondo, pure gli Harmony se leggono in scioltezza. La differenza, tra l’uno e l’altro, dovrebbe farla il contenuto. E cosa rimane di questo libro? La sensazione di un grosso polpettone riuscito male.

Il romanzo copre un arco temporale che abbraccia tutta la vita di Marco Carrera, con continui salti avanti e indietro nel tempo che vanno ben oltre l’attuale presente. Se vi state chiedendo perché lui sia il colibrì, non temete: nel libro vi verrà ripetuto più e più volte. Come se foste dei cretini che hanno bisogno di un ripassino ogni tot. E questa cosa la ritroverete per più cose nel corso della lettura.

Si passa da capitoli più o meno “normali” (ma pur sempre pieni di banalità), a lettere che fanno concorrenza ai bigliettini dei Baci Perugina, ad e-mail che sembrano scritte sotto l’influsso di droghe. E vi risparmio i messaggini. Ma, vi assicuro, di cose poco plausibili se ne incontrano a iosa durante tutta la lettura. A cominciare, ad esempio, da uno psicologo che si permette di chiamare il marito della sua paziente per spifferargli quanto confidatogli in seduta (alla faccia della professionalità e dell’etica!). E poi la concentrazione di morti, la quantità di drammi, psicologi, pippe, seghe, e pure l’uomo del futuro (che è donna). Una lunga ed estenuante lettura senza valore e pure senza punteggiatura (preparatevi a frasi lunghe anche due pagine).

Il colibrì veronesi

Un tale malessere credo di averlo provato solo con La verità sul caso Harry Quebert nella mia storia recente (stessa casa editrice: sarà un caso?). Un esercizio di ego. Un’accozzaglia di nulla, impacchettato ed infiocchettato da una riuscita operazione di marketing.
Complimenti vivissimi.

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